MARICLA PANNOCCHIA
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Questo diario di viaggio è un estratto dal libro, attualmente in lavorazione, che sarà pubblicato in favore di Support and Sustain Children. Ho viaggiato con loro in un campo profughi al confine fra la Turchia e la Siria, e in aree urbane vicino al confine, dal 14 al 20 gennaio 2022.

14 gennaio 2022
Sono all’aeroporto di Fiumicino (Roma), al gate E37. Sono qui da più di due ore per disbrigare tutte le formalità. Il mio volo da qui a Istanbul è in ritardo, saremmo dovuti partire alle 12.30, invece la partenza è prevista per le 14.00.
Anche il volo di Arianna e Paolo (da Bergamo) è in ritardo di un’ora. Per farla breve, dovremmo essere tutti sul volo che partirà da Istanbul e ci porterà ad Adana, stasera alle 21 circa. Dovremmo incontrarci all’aeroporto di Istanbul. In origine avremmo avuto la coincidenza alle 18.20. Non credo di aver capito veramente dove andrò, cosa farò, cosa vedrò o chi incontrerò.
Sono circa le 15.30 (ora italiana) e sono sull’aereo per Istanbul. Atterreremo fra circa mezz’ora. Sono in Medio Oriente.
15 gennaio 2022
Qui è evidente che le ragazzine che da noi frequenterebbero la scuola media, magari frequentano una delle due tende Arcobaleno, che fungono da scuola qui al campo, però, siccome questo è lo strato della popolazione che già in Siria era molto umile e non è istruito, ancora sono praticate tradizioni, se così possiamo chiamarle, aberranti come il matrimonio precoce. Qui, infatti, le ragazzine di 12 o 13 anni sembrano già delle donne, non tanto fisicamente, perché se le guardi in faccia hanno ancora i lineamenti da bambine, ma per come si comportano.
Parlo con una donna, Saha, di 35 anni, appena due meno di me. “In Siria abitavamo a Srin, vicino ad Aleppo, dove lavoravo. Anche mio marito lavorava; era un venditore di pane. Un giorno, all’improvviso, delle bombe sono piovute sul nostro villaggio e siamo fuggiti. Siamo arrivati in Turchia illegalmente, perché abbiamo perso tutto, inclusi i documenti. Avevamo solo gli abiti che indossavamo al momento della fuga. Non avendo alcun soldo, siamo venuti qui nel campo perché per vivere nella città avremmo avuto bisogno di denaro. In Siria avevamo una casa e dei terreni nostri, ma ora abbiamo solo una tenda. Solo mio marito lavora nei terreni qua vicino, io mi occupo dei bambini. In Siria avevamo tutto: una casa, la scuola, dei lavori, il cibo eccetera. Qui non abbiamo niente. Mio marito guadagna molto poco e con quel poco va al market per comprare quello che basta per farci sopravvivere. La vita qui nel campo è molto difficile. La mia famiglia è composta da dieci bambini, il più grande ha undici anni, non possono lavorare.”
Le chiedo che cosa spera per il futuro: “Voglio tornare a casa”.
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Siamo alla distribuzione dei pacchi nella zona di Abu Khaled, c’è molta confusione, persone che si accalcano per prendere il proprio pacco alimentare. Tanti di questi bambini sono bellissimi, con degli occhi meravigliosi, che parlano da soli. Anche molte ragazze o giovani donne sono davvero belle.
Ricordiamoci sempre che è solo un caso, un bel colpo di fortuna sfacciata, se noi andiamo al ristorante e se queste persone si accalcano in maniera quasi animalesca per avere dei pacchi alimentari contenenti quello che la maggior parte di noi compra, senza pensarci neanche tanto, quando va a fare la spesa al supermercato. Ci tengo a stressare su come queste persone siano come noi; non valgono meno di noi, noi non valiamo più di loro. Loro non sono peggio di noi. Noi non siamo migliori di noi. Ci sono giustizia e ingiustizia in entrambi i lati del mondo. Queste persone, anche quelle con il maggior numero di difetti, se vogliamo chiamarli così, hanno come unica colpa quella di essere fuggite da un Paese in guerra. I bambini e i ragazzi, poi, sono l’innocenza, la bellezza e l’educazione fatta persona. Sono la vita, che ancora brilla nei loro occhi, si ode nella loro risa, si accende di speranza ogni volta che entrano in una delle due tende Arcobaleno, che fungono da scuola. Se devono vivere in queste condizioni, è solamente perché nella loro terra avrebbero rischiato di morire. Ricordiamocelo.

16 gennaio 2022
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Ieri Yahya ci ha parlato di un suo amico che voleva rivolgersi ad Arianna per spiegarle la sua situazione e vedere se l’Associazione può aiutarlo perché ha dei problemi alla faccia e vorrebbe sottoporsi a un’operazione chirurgica. Arianna gli ha detto che non sarebbe stato necessario far venire quest’uomo, ma che avrebbe potuto mandarle le foto, invece stamani lui è venuto nella hall dell’albergo subito dopo che noi avevamo finito di fare colazione, e ci ha esposto il suo caso. Era con due accompagnatori suoi parenti e Yahya faceva da interprete perché loro parlavano solo arabo. La situazione di quest’uomo è molto complessa, egli teneva sempre la mascherina ma non solo perché eravamo all’interno, bensì anche per nascondere la parte inferiore del volto. Quando l’ha tolta per mostrarci la condizione, onestamente l’ho guardato per un secondo e poi ho chiuso istintivamente gli occhi. Ho visto che la cosa ha impressionato anche gli altri. I documenti sono in turco, ma sembra che quest’uomo abbia un qualche tipo di tumore che lo sta mangiando a livello della faccia, specialmente della parte inferiore. Sembra anche che sia stato curato, anche se magari può aver “perso tempo” prima di accedere alle cure perché al momento della scoperta della malattia poteva essersi trovato in Siria, con la guerra in corso. Portarlo in Italia perché possa curarsi è praticamente impossibile, è difficile farlo anche quando i malati sono bambini o ragazzi. Per gli uomini e le donne è, appunto, impossibile o quantomeno, per avere una minima speranza di andare, la persona dev’essere a rischio di vita. Secondo Arianna i trattamenti a disposizione qui in Turchia (ammesso che un profugo possa pagarli) sono gli stessi che sarebbero a sua disposizione in Italia e infatti quest’uomo ha detto che lui non vorrebbe necessariamente andare in Europa ma ovunque lo possono curare, anche qui in Turchia. Lui ha difficoltà a respirare e riesce a mangiare solo stando sdraiato. Egli è del 1983, quindi ha un anno più di me e, teoricamente, ancora tutta la vita davanti. La sua famiglia (moglie e due figli) è ancora in Siria e lui ha chiesto se fosse possibile rivederli cioè portarli in Turchia perché possano rivedersi ma far varcare il confine a delle persone non è semplice. Come il solito, questa è una situazione drammatica di una famiglia che vive separata che include un uomo ancora giovane che, con ogni probabilità, morirà a causa di questa malattia. Arianna mi ha raccontato di come, durante ogni missione, lei sia contattata da svariate persone che vogliono esporle i loro casi e di solito si tratta di bambini o ragazzi affetti da gravi patologie. 


Shahed, 10 anni, “Da grande voglio diventare un’insegnante.” Le chiedo che cosa le viene in mente quando pensa alla vita al campo. “Nella mia mente vedo la spazzatura, la sporcizia… queste sono le prime cose che mi vengono in mente”. Le domando, poi, che cosa vorrebbe che ci fosse al campo, “Più cibo e più tende”. Lei vive qui da cinque anni e ricorda pochissimo della Siria. “Mi ricordo le case, i paesi…”.
Le chiedo, poi, cosa vorrebbe dire ai sostenitori di Support and Sustain Children: “Grazie perché mi aiutate; vi voglio bene”. E poi aggiunge: “Vorrei tornare in Siria”.
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Shahed ed io
Siamo in una delle due tende/scuola dove l’insegnante farà una serie di test per vedere cos’hanno imparato i bambini. La maggior parte di questi bambini, prima dell’arrivo di Arianna, non aveva mai preso in mano una penna. Molti di loro ora sanno comprendere un racconto e farne il riassunto e alcuni sanno pure scrivere brevi testi. Io che vivo di scrittura vedo il potenziale e la bellezza di tutto questo. Arianna mi racconta di un ragazzo, che a vederlo dimostra sui dodici anni, che è un “recuperato” ovvero era tremendo. Ora frequenta la scuola ed è uno dei migliori nonostante lavori tutto il giorno nei terreni qui intorno (qui la scuola è nel tardo pomeriggio proprio perché la maggior parte dei bambini e dei ragazzi, durante il giorno, lavora). Se questo ragazzo non va a lavorare, il padre lo picchia. 
17 gennaio 2022
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Sono le 8.20 circa, sono seduta sul letto in hotel. Inizio a ignorare la sveglia quando suona. Ieri sera siamo venuti via dal campo alle 20.30 circa e ci siamo persi, nel senso che eravamo in macchina fra le vie del campo e non trovavamo più l’uscita. Era buio e potevo vedere chiaramente come non tutte le tende hanno l’elettricità. Cosa fai quando fuori è buio, e magari pure freddo o piovoso, non hai niente con cui scaldarti davvero, verso le 19 il sole tramonta e non ti aspetta altro se non una serata e una nottata infinite, al buio dentro una tenda gelida? Le strade del campo sono sterrate, senza né nomi né cartelli con le indicazioni, ma dopo dieci minuti siamo riusciti a uscire. Per me tutte le tende si somigliano ma Arianna, che viene qui da tanti anni, sa riconoscerle quasi tutte con un’occhiata (a chi appartiene questa o quella tenda). 
Maha, 12 anni: “In Siria vivevo in un villaggio con mia madre, mia sorella e mio fratello. Nostro padre è morto. Quando è scoppiata la guerra sono venuta qua in Turchia con mio fratello mentre mia madre e mia sorella sono rimaste in Siria. Loro non sono potute venire con noi perché, quando è scoppiata una bomba, mia sorella è rimasta ferita e ora non è più capace di muoversi. La mamma è rimasta al villaggio per occuparsi di lei. Mia sorella ora ha quattordici anni. Mio fratello vive qui al campo con me: lui lavora per supportarci. In Siria vivevamo tutti nella stessa casa. Una notte, all’improvviso, un aereo ha sganciato una bomba sul nostro villaggio, la mia casa è stata colpita ed io ho subìto ustioni al volto e in altre parti del corpo. Ho avuto molta paura. Mia madre si sentiva triste per la mia situazione e ha deciso di portarmi da un dottore perché potesse operarmi ma questo ha detto che, se mi sottoponessi a un’operazione chirurgica al viso, rischierei di danneggiare le vene e altro, quindi per ora è meglio che io rimanga così, magari in futuro questi rischi diminuiranno. Mio fratello ha ventidue anni e lavora nei terreni qua intorno al campo. A volte lo aiuto.” Le chiedo cosa vorrebbe dire alle persone del resto del mondo: “Tutti i bambini devono essere felici. Io, per loro, farei qualcosa in grado di fargli provare felicità”. 
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Maha ed io
18 gennaio 2022

​Sono in hotel. Ieri sera siamo andati via dal campo verso le 19, ci aspettavano tre ore di strada e ora siamo in questa città dove oggi Arianna dovrà parlare con delle persone in vista di una possibile collaborazione e tutti andremo a visitare una scuola fondata e gestita da un’organizzazione locale. Qui non c’è un campo, ma si tratta di una cittadina di profughi. Queste persone, al momento della fuga dalla Siria, disponevano di più soldi della famiglie del campo, abbastanza da vivere in una casa e magari avviare un’attività commerciale. Ovviamente quando scrivo “casa” non mi riferisco a quelle come le nostre, si tratta spesso di una o poche stanze con i beni basilari. 

Sono circa le 16, siamo nella casa di un insegnante che vuole avviare una piccola scuola per i bambini siriani di questa zona. Gli studenti sono venti maschi e venti femmine, che studiano in classi miste. Prima siamo stati a pranzo, io ho preso riso e una specie di zuppa di fagioli, che però era molto piccante, quindi ne ho mangiato due cucchiaiate. (...) Qui ci sono solo profughi siriani che, al momento in cui si sono ritrovati costretti a fuggire dal Paese, avevano qualche soldo da parte, a sufficienza per trovare una casa e magari avviare un’attività commerciale. Quantomeno, qui le case hanno le mura, il pavimento e il tetto. Non sono come le tende del campo.
Quest’insegnante aiuta i bambini come una sorta di dopo-scuola per quelli che già frequentano la scuola turca, e insegna loro l’arabo. Quattro bambini, invece, non vanno alla scuola turca, quindi, per loro, questo è l’unico luogo dove avere accesso all’istruzione. Possiamo dire, quindi, che questa scuola è parallela a quella istituzionale. Quello che ci ha colpiti di più, in positivo, è come l’insegnante voglia focalizzarsi non solo sulle materie ma anche e principalmente sui talenti di ogni studente, creando delle macro-aree in cui svilupparli (per esempio, musica, disegno e lavori manuali). Questo è fondamentale per il futuro di questi bambini e, se mai questi riuscissero a tornare a vivere stabilmente in Siria, lo farebbero portando nel loro Paese natale talenti affinati con cui poterlo aiutare a risollevarsi. Tra l’altro, nei programmi delle scuole turche ci sono pochissime attività che stimolano la mente e la creatività. L’insegnante vorrebbe stimolarli anche con giochi con le carte o gli scacchi nonché supportandoli nell’imparare il turco, visto che comunque gli sarà utile per integrarsi. 
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19 gennaio 2022

​Sono a casa del ragazzino con il cancro. Stamani siamo tornati ad Adana. Abbiamo viaggiato in macchina per circa tre ore. (...) In casa ci sono il ragazzino, la madre, un ragazzo che dev’essere il fratello maggiore e due ragazzine che devono essere le sorelle.
(...)  La madre racconta poi di come in ospedale, visto che si tratta di un ospedale turco, lei non abbia capito praticamente niente di quello che le ha detto il dottore, se non: “Bene, bene” e quindi suppone che ora Omar stia piuttosto bene. La mamma aggiunge, “Ho paura a capire di più, nel caso il dottore mi dica qualcosa di brutto”. La capisco. Questa donna piange mentre racconta, capisco e sento il suo sconforto, la sua paura, ma penso anche che sia necessario, per aiutare e salvare Omar, quantomeno avere una diagnosi corretta e capire con esattezza cos’hanno detto i medici finora e cosa diranno in futuro. (...) Riguardo alle ragazze, come ho scritto prima, pensavo fossero entrambe sorelle di Omar, invece la donna mi spiega che una, quella più grande, è la moglie di suo fratello. La ragazza in questione ha diciotto anni, un velo azzurrino intorno al viso e siede per terra, davanti alla televisione spenta, a cullare il suo bambino di qualche mese. I suoi occhi sono spenti. La madre di Omar deve avere, a occhio e croce, sui quarant’anni (anche se qui tutte, naturalmente, dimostrano più dei loro anni), quindi mi chiedo quanti anni abbia il marito della diciottenne. Si tratta di un uomo già adulto?
L’altra ragazza, Alah, è la sorella maggiore di Omar e ha quindici anni. La mamma di Omar ha tre figli maschi e una femmina, Alah. A volte la ragazzina aiuta il fratello maggiore nel lavoro, quindi a raccogliere plastica e quant’altro per strada per poi rivendere il tutto. Le chiedo se vorrebbe andare a scuola. “Ci andavo, ma ho smesso perché non mi piaceva. Ogni mattina dovevo alzarmi alle sei e camminare per un lungo tragitto, al buio, sino alla scuola. Avevo paura.” Le domando che cosa desidera per il futuro. Lei abbassa lo sguardo e risponde una parola in arabo e, anche se non l’ho mai sentita prima, ne comprendo il significato. Mi volto verso Yahya e glielo chiedo, solo per conferma: “Niente?”. Lui annuisce: “Niente”.
Questo è uno dei momenti più agghiaccianti dell’intera missione. Sembra un momento apparentemente banale, in fondo potrebbero esserci e ci sono cose peggiori, ma quando ti ritrovi a guardare negli occhi una ragazzina, poco più che una bambina, che è già morta dentro e non ha prospettive per il futuro, ti senti come scuotere. Personalmente provo come un brivido freddo e poi una rabbia accecante accompagnata dalla consapevolezza che qui le cose vanno così, non solo per via della guerra e della loro condizione, è proprio la cultura.
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Omar ed io. La ragazzina di profilo, con il velo a scacchi marrone, è Alah.
Sono quasi le 17, siamo al campo. Fa molto freddo, tira un vento gelido e, nonostante questo, la maggior parte dei bambini è scalza. Molte persone non hanno nemmeno la stufa nelle tende. Paolo e alcuni degli altri uomini stanno sistemando una stufa che oggi Support and Sustain Children ha acquistato per il nucleo uno, composto solamente da bambini orfani, uno dei casi più fragili. Questi bambini dormono in una tenda senza stufa, non hanno né scarpe né calzini, e neanche giubbotti. (...) La gente del campo, ma in realtà anche delle cittadine dove siamo stati nei giorni scorsi, mi dà un’impressione di tristezza, forse perfino rassegnazione, difficile da descrivere. È come un manto che avvolge tutti, anche i più giovani. I bambini fino ai dieci/dodici anni riescono ancora a ridere, giocare e sperare ma i più grandicelli cominciano ad avere serie difficoltà nell’accettare questo tipo di vita, e a ragione, direi. Le ragazze rischiano di essere date in spose a sedici anni, a volte anche prima, e di passare tutta la vita a sfornare figli sino alla menopausa. Molte sanno a malapena leggere e scrivere, alcune neanche quello. Che futuro potranno mai avere? Adesso al campo non c’è corrente elettrica.
Arianna dice che qui, nonostante le varie difficoltà e incomprensioni, c’è un incontro fra due culture, e sono d’accordo con lei. Anni fa non era così. Anche le persone del campo hanno dovuto imparare a fidarsi di lei e degli altri membri dell’organizzazione, o, più in generale, degli occidentali.
 
(...) Nel momento in cui i tuoi diritti umani vengono violati, e la comunità internazionale non solo non punisce i colpevoli, ma ti accusa di essere tu quello sbagliato, quello da “rimandare indietro”, e ti lascia a marcire in un campo, il messaggio che tu ricevi è: non vali abbastanza. Ecco perché queste missioni, secondo me, sono così importanti; sì, certo, SSC porta giubbotti, cibo, materiale per la scuola, monitor, stufe e molti altri beni materiali di prima necessità e anche utili perché queste persone possano vivere un po’, invece di limitarsi a sopravvivere, ma più che altro questo è, appunto, un incontro di mondi, di culture, di persone. Gente qualunque parte dall’Italia per passare del tempo con le persone del campo, questo, per la gente che vive lì, si traduce in amore, affetto, segno d’importanza. Non pensano più “io non sono importante per nessuno” perché è evidente quanto siano importanti per ognuno di noi che, una o mille volte, è salito su un aereo per la Turchia, anzi due, si è fatto più di un’ora di strada in mezzo al niente per arrivare al campo e scorgere, fra le tende sporche, sorrisi di anticipazione. 
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21 gennaio 2022
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(...) Prima di questo viaggio, avevo sentito parlare delle persone scappate dalla Siria – chi non l’ha fatto? – ma quando hai l’opportunità di conoscere veramente quest’individui, tutto cambia. I siriani, ora, per me hanno dei nomi, dei volti e delle vite. Sono reali quanto me e quanto qualsiasi altra persona conosca qui in Italia. Sono grata a ognuno di loro per avermi accolta nella loro vita, per avermi raccontato parte della loro esistenza, per aver parlato di argomenti dolorosi e difficili, per i loro abbracci, per i giochi, i sorrisi, il coraggio, la resilienza… perché quello che cerco da sempre, credo, è l’autenticità. La vita di noi esseri umani dovrebbe essere onesta, vera, autentica; non dovrebbe avere niente a che fare con la popolarità sui social, con i beni materiali che acquistiamo e con tutti quegli atteggiamenti volti a primeggiare o a voler denigrare e sminuire gli altri. Noi siamo aria, siamo pioggia e sole, siamo mani che si sfiorano, risa che si levano verso l’alto. Siamo corpi che tremano, siamo rabbia e sconforto, siamo coraggio e amore e siamo, soprattutto, fiducia. Ecco che cos’ho visto in quel campo, che cos’ho sperimentato sulla mia pelle, oltre alla resilienza, oltre all’amore, ho trovato fiducia in un luogo dove tutto fatica a crescere e fiorire. 
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Il testo racchiude emozioni, esperienze e pensieri di Maricla Pannocchia che non sono necessariamente gli stessi di Support and Sustain Children e/o degli individui che ne fanno parte. Il testo può essere riprodotto totalmente o parzialmente per attività non a scopo di lucro e sempre citando la fonte e inserendo il link a Support and Sustain Children. Se avete necessità di usare il testo, anche solo parzialmente, per dei progetti a fini di lucro inviare una mail all'indirizzo: mariclapannocchia@outlook.it

Tutte le foto, tranne quelle con Shahed e Omar, sono di Paolo Messina.

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