1/6/2021 0 Comments RECENSIONE FILM: UNBROKEN![]() Titolo: Unbroken Anno: 2014 Durata: 130 minuti Regia: Angelina Jolie Cast: Jack O'Connell, Miyavi, Garret Hedlund, Finn Wittrock Dove vederlo: Netflix Valutazione: 5/5 Non sapevo cosa aspettarmi quando ho deciso di guardare questo film. Sapevo che si tratta di una storia per “ricordarci quanto è grande lo spirito umano”. E sì, questo film racconta proprio questo: la storia vera di Louis Zamperini, ragazzo di origine italiana, che si auto-condanna a una vita da buono a niente, bevendo, partecipando a zuffe con altri ragazzi… suo fratello maggiore Pete, però, vede qualcosa di meglio in Louis e lo incoraggia. Il ragazzo diventa presto il più veloce corridore fra gli studenti e arriva a partecipare alle Olimpiadi in Germania. Durante la guerra, l’aereo cade in mare e Louis rimarrà disperso per molti giorni, credo circa 40, in pieno oceano insieme con altri due compagni. Lì vediamo come questi tre ragazzi s’ingegnano, hanno paura, pregano, affrontano le intemperie, gli squali, il freddo, la fame e perfino le pallottole di un aereo tedesco. Rimasti in due, vengono “tratti in salvo” da una nave giapponese e finiscono come prigionieri di guerra. Già provato dal naufragio, praticamente senza cibo e acqua, o una coperta, da così tanti giorni, Louis si ritrova in balia dei giapponesi, in particolar modo del caporale, soprannominato dai prigionieri “l’uccello” perché spia sempre tutti. Louis viene picchiato, denigrato, teme tante volte di morire ma sceglie la lealtà e volta le spalle a una prigionia dorata in un hotel di lusso con buon cibo. Per godere di tutto ciò, infatti, avrebbe dovuto dire bugie sulla sua patria. Così Luis torna al campo; lo vediamo sempre più provato, ma ha la fortuna di trovare anche al campo chi crede in lui. E’ ovvio a chiunque – perfino al caporale giapponese, oserei dire – che Luis non è un ragazzo come tanti altri. I suoi sguardi lasciano intravedere la sua anima, la sua forza. Egli continua a credere di non valere un granché, ma in tanti credono in lui. Ci sono tanti momenti toccanti nel film, che ha come sfondo il rapporto di Louis con la fede, senza essere però pesante, infatti penso sia adatto a persone di qualunque religione, oppure atee. La mia scena preferita è quando Louis, ormai stremato e ferito, deve sollevare, sotto richiesta del caporale, una pesantissima trave e tenerla sopra la testa fino a che lui non gli ordinerà di smettere, pena la fucilazione. Luis riesce a sollevarla un po’ e a tenerla ma poi, trovando dentro di sé una forza inspiegabile, la solleva e la tiene a quel modo. Lì il caporale si rende conto che, nonostante Luis sia sporco, denutrito, ferito e mezzo nudo, è il vincitore. Louis infatti ha imparato che l’odio distrugge te, e la vendetta non è la risposta a un torto subìto. Personalmente non so se riuscirei a perdonare chi mi ha ferito così tanto, ma Luis ci è riuscito. Evito di fare spoiler sul finale, ma ho particolarmente apprezzato la chiusura e anche la canzone scelta per i titoli di coda. La recitazione è ottima da parte di tutti, anche di chi interpreta piccoli ruoli, ma un applauso particolare va al protagonista, l’attore Jack O’Connel, che non conoscevo prima di questo film, e che offre un ritratto splendido e credo molto realista di Luis. La regia è di Angelina Jolie, qui al suo secondo film come regista; un’opera di tutto rispetto regalataci da una donna estremamente intelligente e sensibile; queste sue qualità sono evidenti nel film, dove testa e cuore vanno di pari passo. Ricordo di aver sentito un’intervista in cui Angelina diceva che Luis le aveva detto: “Non fare questo film per mostrare quanto sono straordinario; fallo perché ognuno ricordi quanto è straordinario”. Mi sento di consigliare il film a chiunque; penso possa aiutare chi sta affrontando un momento difficile, di qualsiasi tipo, ma anche chi è sereno. Questo film ci ricorda davvero che dentro di noi brucia la stessa fiamma che ha permesso a Luis non solo di sopravvivere a così tante sofferenze e brutture ma di reagire alla morte con la vita, all’odio con l’amore e vivere una vita degna di essere vissuta. “Se resisti, ce la farai.”
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![]() Titolo: Se fosse tuo figlio Autore: Nicolò Govoni Editore: Rizzoli Pagine: 300 Conoscevo a sommi capi la storia di Nicolò, ragazzo italiano, ragazzo qualunque, che un giorno ha deciso di partire per fare volontariato in India e lì ha imparato gran parte di quello che c'è da imparare sulla vita (incluso: non aderire a progetti di volunturismo), ma la sua strada era solo all'inizio. In questo libro, narrato in prima persona, Nicolò ci accompagna nell'hotspot di Samos, un Inferno in Terra, costruito dalla e nella nostra Europa. Qui conosciamo alcuni dei suoi bambini e ragazzi, e le loro famiglie; tutte queste persone hanno un nome, una personalità e una storia. Ho particolarmente apprezzato questo aspetto perché di solito, quando parliamo di rifugiati o di persone bisognose in generale, la gente tende a fare di tutta l'erba un fascio ma, come dico sempre quando parlo dei "miei" bambini e ragazzi oncologici, dobbiamo tenere a mente che dietro ogni definizione si nascondono singoli individui. Nicolò racconta le difficoltà proprie e degli altri volontari; accenna all'amore, decanta l'amicizia, decanta quindi un'umanità fatta da giovani che rifiutano di farsi piegare dal sistema. Egli racconta candidamente delle brutture, delle violenze e degli abusi che devono subire tanti di questi bambini e ragazzi; bambini e ragazzi che, nei loro Paesi, già hanno dovuto subire la guerra e la violenza. Bambini e ragazzi che sono scappati via mare perché l'alternativa sarebbe stata la morte. Bambini e ragazzi feriti, violentati, soli, spaventati... eppure, il sistema non prova affetto per loro. Nicolò descrive coraggiosamente un sistema che va a rotoli, mettendo nero su bianco i nomi dei colpevoli e della grande organizzazione che opera nel campo e che affigge la propria sigla ovunque, sulle tende, sulle bandiere e via dicendo ma quando si tratta di punire chi fa effettivamente del male a questi bambini, si gira dall'altra parte. Da varie storie raccontate nel libro è chiaro come per il sistema queste non siano persone a tutti gli effetti. Da sempre sono interessata al tema dei rifugiati, tuttavia non penso di avere le conoscenze adatte per sapere cosa succede davvero nei campi profughi. Questo libro illuminerà chi, come me, prova interesse per la causa, ma anche chi semplicemente è rimasto umano. Ci spiega cosa accade veramente; ci racconta le difficoltà, le minacce, ci mostra il coraggio di un giovane uomo che ha deciso di scegliere la verità e di raccontarla all'Italia intera. Personalmente, quando ho letto che questa grande organizzazione si comporta in questo modo, calpestando a sua volta i diritti di chi dovrebbe proteggere, ci sono rimasta un po' di sasso, anche se, leggendo il libro, avevo intuito potesse trattarsi di loro: UNHCR, Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Da adolescente li sostenevo economicamente, convinta che fossero gli unici ad aiutare i rifugiati, e che lo facessero per bene. La colpa, come dice Nicolò stesso, alla fine non è dei singoli individui, ma di un sistema marcio. E l'unico modo è cambiarlo, questo sistema. Nicolò e la sua squadra lo stanno facendo, nonostante mille difficoltà: nel libro l'autore racconta l'idea di fondare la prima scuola per bambini profughi a Samos. Non è una passeggiata, ovviamente, ma un finanziatore anonimo dal cuore grande crede in questo sogno e la scuola diventa realtà. Nicolò trova tanto, perde tanto, deve venire a patti con il suo passato e costruire un presente che sappia di futuro per questi bambini e ragazzi. La sua è una sfida enorme; ci sono profughi dall'alba dei tempi e ce ne saranno sempre, ma condivido appieno la missione e il credo di Nicolò, penso sia importante renderci conto che queste persone sono come noi, hanno sogni, storie e speranze simili alle nostre. E' solo un caso se noi siamo al sicuro e loro sono dovuti fuggire dai loro Paesi. Dobbiamo ricordaci di essere umani, e lottare uniti contro un sistema che dà tanto (materialmente) a chi tanto ha già, e che lascia gli ultimi alla fine del percorso. Ma a volte, come dimostra Nicolò, bastano le parole giuste per far capire ai cosiddetti ultimi, che ultimi non lo sono affatto, ma che sono persone meravigliose con ogni diritti di essere felici e di andare avanti nella propria vita. Ho letto questo libro perché mi appresto a insegnare italiano come volontaria a ragazzi che sono arrivati a Roma da soli, in fuga dai loro Paesi per via della guerra e/o delle persecuzioni, e volevo farmi un'idea migliore di chi potrei trovare. Non credo che questo libro mi abbia dato la risposta, semmai solo un'infarinatura, ma è giusto così, perché lo scoprirò solo conoscendoli. Mi ha dato, però, la conferma che noi tutti dobbiamo e possiamo fare qualcosa per far sì che questi giovanissimi che già hanno subìto tanto si integrino nella nostra società nel migliore dei modi, e siano visti e trattati come esseri umani. ![]() Titolo: Il quaderno azzurro Autore: James A. Levine Genere: storie vere Sinossi: Batuk ha quindici anni e due tesori: la sua bellezza e una matita. Viveva in campagna prima di essere venduta dalla famiglia, costretta dall'indigenza, alla tenutaria di un bordello. Da sei anni Batuk è prigioniera nella strada delle prostitute bambine, chiusa in una gabbia che lei chiama nido, affacciata sul vortice senza speranza delle vie di Mumbai. La bellezza le garantisce un trattamento di favore nella realtà agghiacciante che la circonda, ma l'unico modo per sfuggire all'orrore quotidiano è la sua capacità di dare voce al suo mondo interiore. Perché Batuk crede nella forza delle parole, nel loro potere consolatorio. Sarà proprio la scrittura a permetterle di ribellarsi di fronte all'ennesimo gesto di cinismo e di spietata violenza. Valutazione: 4/5 Recensione: Leggendo la trama, è facile pensare che questo sia l’ennesimo libro che racconta la storia sfortunata di una povera ragazzina del Terzo Mondo ma c’è qualcosa di diverso. La protagonista è Batuk, la conosciamo quando ha nove anni e alla fine del libro ne ha 15. E’ nata in un villaggio povero dell’India, in una famiglia con cui, tutto sommato, va d’accordo. Ha un bel rapporto specialmente con il papà. E’ proprio lui, però, ad accompagnarla a Mumbai quando ha nove anni e a venderla come prostituta. L’autore, un medico americano, ha intervistato varie bambine e bambini che lavorano come prostitute nei vicoli di Mumbai ed è stato colpito dalla giovane prostituta con la sari rosa e un quaderno blu, impegnata a scrivere. Il tasso di alfabetizzazione in posti del genere è intorno alla zero, quindi non c’è da stupirsi se l’autore ne è stato colpito. La storia è raccontata in prima persona da Batuk (ottimo il lavoro dell’autore che, pur essendo un uomo occidentale adulto, ha saputo rendere perfettamente la prosa di una bambina e poi ragazzina indiana). Non sono risparmiate le descrizioni delle violenze e dei soprusi ma presto quella diventa la normalità per Batuk che, in un certo senso, si costruisce una corazza per non rendersi conto di quanto sia disperata e triste la sua situazione e per non sentire la mancanza della famiglia e della gioia che provava prima di essere portata a Mumbai. Ad aiutarla in tutto questo c’è il suo amato quaderno blu; scrivere, infatti, l’aiuta a esternare ciò che prova. Nonostante le descrizioni piuttosto dettagliate delle violenze e degli abusi, Batuk usa sempre termini poco appropriati, per esempio scrive “fare la torta” per descrivere l’atto sessuale. Viviamo con Batuk nel bordello, nell’orfanotrofio (che altro non è che un covo per baby prostitute) e poi nel lussuoso grande albergo dove la triste storia non si trasforma in una fiaba, tutt’altro. Fra le mura pregiate di un hotel per turisti ricchi, Batuk, ormai quindicenne, continua a essere maltrattata, violentata e picchiata fino all’epilogo. Batuk dice chiaramente di non avere più un nome; sono rari i casi in cui qualcuno la chiama con il suo nome di nascita, figurarsi quando qualcuno le chiede il cognome. Di solito la chiamano “bambolina”, “bellezza” o “puttanella”. Vale quanto gli uomini sono disposti a pagarla. E’ un oggetto; deve fingere di essere remissiva e lei è brava perché, oltre al talento della scrittura, ha quello della drammaticità, del teatro. Ed è stata questa una delle cose del libro a colpirmi di più. Naturalmente gli abusi e le violenze sono sempre sbagliati, ma qui la protagonista è una ragazzina che ha chiaramente del potenziale. Una ragazzina intelligente, sensibile, che si pone tante domande, che, se fosse nata in un Paese occidentale, avrebbe fatto qualcosa di grande della sua vita. Sarebbe andata a scuola (Batuk ha imparato a leggere e scrivere dalle infermiere di un “ospedale” quando ha preso la tubercolosi), poi all’Università; avrebbe pubblicato i suoi scritti, avrebbe recitato, avrebbe viaggiato per il mondo, si sarebbe innamorata, avrebbe scelto di perdere la verginità con un ragazzo della sua età… avrebbe messo su famiglia… Batuk ci ricorda il potenziale sprecato di tutte le persone, di tutte le donne e le ragazze, costrette a vivere come schiave. Il secondo punto che mi ha colpito è che questa storia non ha un lieto fine, anzi, non ha neanche una fine vera e propria. Di solito, al termine di questo genere di libri scopriamo che la protagonista per fortuna è riuscita a lasciarsi alle spalle la sua terribile situazione e adesso vive al sicuro in un Paese occidentale. Non è il caso di Batuk. Al termine, non sappiamo che fine abbia fatto, cosa le sia successo dopo l’ultima violenza. E’ ancora viva? A volte, c’è da sperare di no. Perché questo libro ci ricorda quanto la vita sia crudele con la maggior parte delle persone di questo mondo, come ogni giorno ci siano persone di ogni età, inclusi bambini e ragazzi, che si svegliano e vivono nel puro orrore dal momento in cui aprono gli occhi. La vita di Batuk è scandita da violenze sessuali, botte, urla, obbedienza… anche nei brevi momenti di apparente calma, perché dire serenità è troppo, non può mai essere felice o rilassata perché è ovvio che se le danno tanto da mangiare lo fanno per un secondo scopo, che se la truccano per bene e le comprano un bel vestito è per valorizzarla per il cliente e via dicendo… presto Batuk comincia a essere indifferente alle tortine e alle altre prelibatezze che a volte le danno. Consiglio la lettura di questo libro a chi è interessato alle storie vere, alla condizione delle donne e delle bambine nel Terzo Mondo. In realtà, però, lo consiglio anche a chi generalmente legge altro perché è nostro dovere sapere. E sapere è il primo passo per agire. Ricordiamo, infatti, che non abbiamo alcun merito per essere nati nella “parte fortunata” del mondo. All’età di Batuk, anche io amavo scrivere, leggere e recitare. Ero curiosa, sveglia, sensibile come lei. Avrei potuto essere Batuk. Ognuno di noi avrebbe potuto esserlo. |
AUTRICEBenvenuti nel mio blog! Qui pubblico recensioni e segnalazioni di libri e film ma anche i miei pensieri a ruota libera, commenti sull'attualità, racconti di viaggio e tutto ciò che mi passa per la testa! Buona permanenza. Se vuoi che segnali o recensisca il tuo libro o film/cortometraggio, scrivimi: mariclapannocchia@outlook.it ArCHIVIOCategories |